«Macbeth è un'opera già perfettamente matura (…) ma è ancora un'opera fatta di materiali promiscui», scriveva Gabriele Baldini nell’incompiuto saggio “Abitare la battaglia”, osservando che con essa in taluni punti «Verdi è giunto già, per conto suo, senza saperlo e senza porsi il problema, molto al di là di Wagner». D’altro canto, è innegabile che, al contrario, «in certi pezzi, come la fanfaretta e l'aria splendida del baritono, è rimasto ancora al Trovatore». Insomma, per uno dei maggiori commentatori verdiani, con il suo composito materiale musicale “Macbeth” appare talora proiettata in avanti, mentre altrove si mostra ancora rivolta al passato; dunque in definitiva «un'opera di transizione, in cui sarebbero presenti, insieme, la genuina e vivificante uva invecchiata e le nuove vendemmie». Curioso e forse involontario il richiamo al celebre Valpolicella Ripasso veronese, misto di vino vecchio ‘ripassato’ sulle vinacce dell’ultima vendemmia, non si può qui che pienamente concordare con uno dei maggiori commentatori verdianii. Un po' meno, quando sostiene che lo spirito shakespiriano di questo lavoro sia molto più nerboruto e potente di quello di “Otello”, il cui forte soggetto secondo lui venne dilavato dalle «preziosità letterarie» di Arrigo Boito: perché in realtà, proprio grazie alla collaborazione di quest'ultimo, Verdi riesce a innalzare una costruzione potentissima, creando un dramma di stringente coesione, non inferiore al lavoro del grande Bardo inglese. Diverse le cose per “Macbeth”: mettendo a frutto il suo infallibile istinto musicale, Verdi non si fece troppo condizionare dalla fonte letteraria che, peraltro, non era quella primigenia, bensì il rifacimento tedesco operatone da Schiller, tradotto infine per il Bel Paese dal Maffei; e con l'aiuto di quel remissivo, ma pur sempre efficiente collaboratore che era il Piave, si era reinventato un “Macbetto” di sicuro più italico che scozzese - un po' come aveva fatto col suo padano “Nabucco” - ma non per questo meno formidabile, serrato e corrusco com’è nel clima, nella musica, nei caratteri.
Sia come sia, stiamo discorrendo di una delle opere che più hanno sbrigliato la fantasia di registi e scenografi, portandoli qualche volta un tantino fuori strada. Ricordo ad esempio a Parma nell’ottobre 2001 la contestatissima regia di Dominique Pitoiset – arrivare alla fine per il maestro Evelino Pidò fu una vera tribolazione - che con la collaborazione di Kattrin Michel immerse la vicenda in un opprimente clima dittatoriale, ambientandola in un luogo a metà strada fra una caserma e uno squallido sanatorio, gli uomini in divise naziste e le donne – streghe comprese, intente in cerchio a bere il tè - in severi abiti vittoriani. Oppure, il chiacchieratissimo spettacolo di Giancarlo Cobelli e Carlo Diappi, apparso appena qualche mese prima a Modena per poi girare nel circuito emiliano, memorabile trionfo di sangue e di carne: cumuli di quarti bovini in scena, e tutti i personaggi sempre più solcati di rivoli rossi, compresa una Lady Macbeth - la splendida Patanè – alla fine praticamente nuda in scena.
Niente di tutto questo nel severo assetto scenografico che, ad una decina d’anni dalla scomparsa di Josef Svoboda (1920-2002) il Teatro Pergolesi di Jesi, in collaborazione con il Verdi di Trieste e il Carlo Felice di Genova, ha ricostruito l’anno scorso nei suoi laboratori. Una rilettura geniale, rafforzata dall’asciutta regia di Henning Brockaus e presentata in origine all'Opera di Roma, nel 1995, e tre anni dopo al Carlo Felice di Genova; poi ancora nel 2000 a Tokyo e nel 2002 a Budapest, poco prima della morte dell’artista boemo la cui mancanza s’avverte ancora. Specialmente se il pensiero vola alle oltre 700 scenografie realizzate in quasi sessant’anni di carriera alternando teatro di prosa e teatro lirico, senza rinunciare mai alla voglia di sperimentare e di innovare. Come si scopre ancora in questo tardivo “Macbeth” che abbiamo ora rivisto a Trieste dopo la ‘prima’ jesina (e dopo il successivo approdo nello scorso gennaio a Genova, dov’è andato in scena con Andrea Battistoni sul podio), per il quale seguendo il suo consueto metodo Svoboda fece ricorso a mezzi semplicissimi eppur geniali, ricostruiti per l'occasione con l’intervento di Benito Leonori: in sostanza grandi teli di maglia plastica messi a riflettere mutevoli e geniali retro proiezioni che ne variano di continuo l'aspetto, ricreando un'avvincente rete di vibranti luminosità. Con questo accorgimento, i diafani candidi veli si trasformano in pochi attimi in un’aspra muraglia di roccia, in una oscura foresta, o ancora in orridi cumuli di teschi. Memorabile poi l'immenso specchio posto al capo opposto del lungo tavolo dove siede Macbeth nella tetra sala del trono: una superfice che diviene a tratti trasparente palesandogli, in veste di orrido commensale, la vittima del delitto appena compiuto. Una scenografia scarna ma evocativa, basamento perfetto per la abile regia di Henning Brockaus, condotta con tratti concisi e stringenti; quanto alla scelta di porre una maschera di biacca sul viso d'ognuno accomuna ognuno - carnefici, vittime, ed i testimoni della vicenda – rafforzando il clima di allucinata, onirica tragedia, ed aggiungendo un tocco di enigmatica magia. Ed i severi e 'grezzi' costumi di Nanà Cecchi - straordinari quelli delle streghe – assolvevano tutti splendidamente il loro compito.
Lo spettacolo è giunto a Trieste con lo stesso direttore di Jesi – cioè Giampaolo Maria Bisanti – ma con un cast del tutto diverso, salvo un’unica e fugace apparizione di Tiziana Caruso nel ruolo della Lady. Motivo di notevole interesse poteva essere il debutto italiano del baritono argentino Fabián Veloz, perfezionatosi con un maestro di valore quale Gabriel Bacquier, e che ha già alle spalle un lavoro notevole ed una buona fama presso i teatri ed il pubblico del suo paese. Chiamato quasi all’ultimo sulle sponde dell’Adriatico al posto dell’indisposto Rodolfo Giugliani, ha dato buona prova di sé: voce abbondante e dal bel timbro, sciolto fraseggio, tecnica adeguata, buona capacità recitativa. Un Macbeth più che rispettabile, insomma, imponente nella statura – un po’ come il nostro Maestri - scenicamente sempre espressivo, e musicalmente sempre appropriato. Un interprete che esibisce il giusto accento verdiano, in poche parole; anche se, con ogni evidenza, un maggior scavo psicologico darebbe vita ad un personaggio ancor più vigoroso.
Dimitra Theodossiou ha affrontato Lady Macbeth – debuttata qualche anno fa al Verdi di Pisa proprio con il medesimo direttore – con molto controllo ed impegno, convincendo tutti sia sul versante attoriale che su quello strettamente musicale. Premesso che il ruolo per l’abbondanza di note gravi è sempre stato terreno di caccia anche di mezzosoprani passati al registro superiore (leggi Cossotto e Varrett), un qualche limite dell’artista greca sta proprio nella prima ottava, che non mostra più la forza di un tempo; ma quella centrale è sempre affascinante, mentre le punte estreme sono state affrontate e risolte con grande maestria, restituendo assai bene sia i tanti ‘si’ naturali come pure il famigerato ‘re bemolle’ che sigla la scena del sonnambulismo, risolta scena con accattivante realismo. Né vanno dimenticati i serrati dialoghi con il consorte - specie nella scena della festa - nei quali lo spirito maligno del personaggio affiorava potentemente.
Paolo Battaglia ha letto la figura di Banco con qualche durezza vocale, ma con sufficiente efficacia scenica; Armaldo Kllogjeri ha cantato la bella aria di Macduff con sicurezza, ma senza destare troppa emozione; solido il Malcom di Giacomo Patti. Tra i coprotagonisti, mi hanno impressionato Dario Giorgelè (Medico) e Sharon Pierfederici (Dama), per la perizia mostrata nella scena del sonnambulismo.
Dopo una nota di encomio per il bravo coro triestino per la bravura con la quale ha letto «Patria oppressa», e un’altra per un’orchestra veramente esemplare, resta da dire della notevolissima direzione musicale di Giampaolo Maria Bisanti. Si direbbe che questa partitura, con le sue enfasi tragiche e il tramutare di colori, gli si addica particolarmente, sia nei momenti di ruvidezza –“fanfarette” di cui sopra comprese - sia quando Verdi si volge verso l’avvenire, come nella premessa strumentale alla scena del sonnambulismo. Il maestro milanese trova giusta intesa con la regia, così che le atmosfere oniriche di Brockhaus trovano piena corrispondenza nei colori dell’orchestra, piegata a sorprendenti sottigliezze timbriche; e si mostra poi in completo accordo con i cantanti, sostenuti ed accompagnati con grande intelligenza e non indotti, una volta tanto, a lottare con invalicabili barriere di suono, realizzando senza ostacoli quei tanti segni d’espressione (tra cui i famosi pppp) disseminati da Verdi in calce al rigo musicale.